Maurizio Cucchi - Vite pulviscolari - (2015)

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data: – 21.04.2024, 10:44
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Maurizio Cucchi - Vite pulviscolari - (2015)



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Con Vite pulviscolari, Maurizio Cucchi ha cambiato rotta e il suo umanesimo freddo, intelligente, insofferente, vagamente beffardo – o altrimenti, la sua sofferente ironia – si sono inoltrati in un territorio di confine. In effetti, l’umano e «inevitabile magone» del Disperso è divenuto qui «bolla definitiva d’aria»; il sensibile, doloroso versarsi, travasarsi – di sé – «nel niente» dell’Ultimo viaggio di Glenn si è chiarito nel pensiero poetico fondamentale: «che cos’è / il nulla?». Se “metafisica” è innanzitutto esplorazione del confine tra esistente e non esistente, sguardo sui concetti primi, visione della struttura del mondo, Cucchi con il suo cadenzato passo feriale si è alfine incamminato nella metafisica: disintegrando ogni retorica – dei sentimenti, della natura, della vita, dello spirito, degli oggetti stessi, lontani e avviliti «senza traccia né attrito» – e negando tutte le oppugnabili rassicurazioni della psiche, riscontra su quella via la forma di ciò che è o fu uomo o donna, come un’informazione che sbuca «viva / o superstite, integra, / emersa da un nero immenso tutto». È il tu madre-padre-moglie che recando consolazione viene al mondo, «in quel poco tempo che è il mondo», o sta per allontanarsene, stillante di mistero, a un passo dal nulla non nominabile (o dal nero tutto) e a un passo dalla vita. È la «storia… ingiustamente accidentata» di una piccola donna «gaia e turbata», «piccola madre» retrocessa al non essere, che all’improvviso da quel buio confine si sporge, amorosa, come da una finestra fiorita. È l’antica ribellione «astratta, totale» di un essere chiuso nella sua insufficiente forma umana e l’attuale, clamoroso «grazie» del figlio di fronte a quella stessa forma… Ma questa temeraria poesia di Cucchi, in bilico tra cielo e «terra da mangiare», «felice attrito / col mondo» e nulla sdrucciolevole, è anche una poesia scritta «per rimanere insieme ancora un po’» – umanamente, uomini e mondo – e per trattenere il mondo in sé, nonostante il «sopore negativo» e la «noia delle circostanze»: custodire la forma-mondo come il bene sovrano, nella sua stessa difforme struttura e nella sua vocazione ultima alla difformità. Giorgio Ficara


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